martedì 14 ottobre 2008

Chi non muore si rivede...

7 commenti:

marta ha detto...

che carino! bravi qsti ragazzi! da lontano ci siamo anche noi

Pacina ha detto...

eheheh
bravi bravi ! :)

Davide Modè ha detto...

bravi ragazzi!!! io ci sarò!!!!!!!

Anonimo ha detto...

qual'è l'ordine del giorno?

Anonimo ha detto...

Vi giro un interessante commento
di Francesco Raparelli sulle mobilitazioni di questi giorni.
Scusate la lunghezza,
Mat da Roma

Le notizie corrono veloci, centinaia in assemblea, migliaia nei cortei spontanei e continui che bloccano le lezioni e spesso irrompono nella città occupando le strade e bloccando il traffico. Da Roma a Pisa, da Napoli a Padova, da Milano a Bologna, da Perugia a Torino, le facoltà e gli atenei cominciano le mobilitazioni contro la legge 133, la finanziaria che, tra l’altro, intende dismettere in via definitiva l’università pubblica.
Della legge 133 abbiamo parlato spesso nelle ultime settimane, nulla a che vedere con una riforma organica, piuttosto tre articoli che minano alle fondamenta l’università pubblica così come l’abbiamo conosciuta: riduzione drastica del fondo di finanziamento ordinario (Ffo); blocco del turn-over (per ogni 5 docenti che vanno in pensione solo un ricercatore potrà diventare docente); trasformazione delle università in fondazioni private (elemento facoltativo, ma di fatto reso obbligatorio dalla riduzione del Ffo).
Elementi decisivi che si aggiungono al fallimento, ormai da tutti dichiarato, del 3+2, la riforma Zecchino-Berlinguer, e al de-finanziamento della ricerca. Dunque, l’atto conclusivo di un lungo processo bipartisan che anno dopo anno, finanziaria dopo finanziari ha avuto un bersaglio chiaro: la formazione intesa in modo complessivo, dalla ricerca alla scuola.
La legge 133, infatti, segue il decreto Moratti che nell’autunno del 2005 ha precarizzato la ricerca e lavora di concerto con il decreto Gelmini, in questi giorni al voto di fiducia, che condanna alla disoccupazione almeno 150.000 insegnanti precari (bloccando il turn-over), impone il maestro unico tagliando il tempo pieno, reintroduce il grembiule e il voto di condotta.
Così come l’offensiva è bipartisan e complessiva altrettanto in questi giorni si stanno affermando straordinari esperimenti di lotta: dalle scuole elementari ‒ nell’inedita alleanza tra genitori, insegnanti e bambini ‒ agli istituti di ricerca, dalle università alle scuole medie superiori. Decine di cortei, prime occupazioni nelle scuole e nelle facoltà. Proprio nelle facoltà cominciano a segnare il passo i movimenti: oggi la giornata di mobilitazione indetta dalla Rete UniRiot, ma già dall’inizio della settimana gli appuntamenti di discussione e di conflitto si sono moltiplicati.
Assemblee ricchissime nella partecipazione e radicali nei toni: una nuova generazione di studenti, a volte poco politicizzata, di certo molto pragmatica e per nulla ideologica, fa esperienza della propria precarietà e dell’assenza di futuro alla quale le classi dirigenti, politiche ed economiche, vogliono destinarla.
C’è convinzione diffusa che si tratta di un momento decisivo: o la legge 133 viene ritirata o la l’università pubblica rischia di sparire per sempre! Con determinazione si urla nei cortei "Non saremo noi a pagare la vostra crisi", il riferimento è alla crisi economica e alle ricette che Banche centrali e governi nazionali stanno adottando per salvare i mercati finanziari: mentre università e ricerca sono stati de-finanziati per anni, nel nome del risanamento di bilancio, oggi i contribuenti e le casse pubbliche vengono spremute per nazionalizzare le banche e per socializzare le perdite compiute dalla speculazione selvaggia. Un paradosso inaccettabile che smuove la rabbia degli studenti, ma anche di dottorandi, ricercatori e docenti.
Al pari del 2005 il mondo dell’università trova elementi di convergenza unitaria, pur nelle differenze tutti sentono a rischio il proprio presente e il proprio futuro. Ma oggi più del 2005 il ruolo degli studenti è decisivo: sono loro per primi che vedono sfumare ogni prospettiva di futuro, sono loro per primi che sentono di dover giocare una partita fondamentale. Il movimento del 2005, infatti, riuscì per diverse settimane ad occupare le facoltà, ma non riusci a coinvolgere altre figure sociali nel conflitto. Docenti e ricercatori, per parte loro, abbandonarono il campo dopo l’approvazione del decreto, nella speranza che il cambio di governo imminente potesse garantire trasformazioni positive. Ma la disastrosa esperienza del secondo governo Prodi e del ministero Mussi ha dimostrato che l’università e la ricerca non hanno governi amici e che solo i conflitti possono cambiare le cose. I movimenti che si stanno sviluppando in questi giorni condividono questa percezione e sfuggono strumentalizzazioni sindacali e partitiche, detta in modo più chiaro, sanno che non c’è alcuna sinistra possibile in grado di sostenere l’università pubblica di fronte alla catastrofe. La consapevolezza, dunque, è che dalla catastrofe ci si salva mettendosi in gioco, conquistando spazio con le pratiche di conflitto e di libertà. "Né stato né mercato" questo slogan ricorre più volte nelle discussioni assembleari, nulla della vecchia università è conservabile come tale: la dequalificazione determinata dal 3+2, la distribuzione feudale e nepotistica del potere, la povertà di stimoli e la debolezza della ricerca, tutti elementi che nessuno ha voglia di conservare intatti. Piuttosto l’esigenza condivisa è quella di cominciare a progettare un’altra università che sappia definire un nuovo campo di decisione comune e democratica sul sapere e sulle forme della cooperazione scientifica.
C’è una strana ricorrenza che da diversi anni accompagna le grandi esplosioni universitarie: la fuga di una pantera. Accadde nel ’90, di lì il nome assunto dal movimento, accadde nel 2005. Sembrerà strano ma una pantera è scappata e si aggira in Irpinia, la notizia è di qualche giorno fa. Speriamo che anche questa pantera libera porti con se la libertà del sapere e le occupazioni degli studenti: nulla è scontato, molto è il cammino da fare, sicuramente le condizioni sono eccellenti e noi non possiamo far altro che provarci, come sempre, ad esser più liberi!

Anonimo ha detto...

ciao ragazzi,
sono Francesca della facoltà di Scienze...
innanzitutto GRAZIE per aver organizzato qualcosa...
gli studenti di Trento secondo me non sanno nulla di quello che sta succedendo..
io ho cercato nei giorni scorsi di sollecitare i miei colleghi rapp di fare qualcosa per INFORMARE gli studenti..ma essendo dalla stessa posizione politica della Gelmy ...come potete immaginare...
risposte zero...
Poi finalmente stamattina ho visto il vostro volantio...e mi sono rallegrata che qualcuno stesse facendo qualcosa..
ora inoltrerò il vostro volantino a più persone possibili...
io purtroppo non riuscirò ad esserci..
terrò controllato il blog così vedo cosa decidete..

Grazie ancora...

WWT ha detto...

Come d'accordo nell'assemblea di oggi a Sociologia, invio un mio contributo che ho scritto tenendo conto della discussione odierna.

Luca Martino




Per un sistema formativo pubblico


Il No! alla legge 133/08 è un imperativo d’obbligo, che scaturisce da una consapevolezza del valore della formazione in un sistema-paese ormai al collasso.
E’ da questa considerazione che sta partendo in tutta Italia il movimento studentesco, per arginare politiche governative miopi e populiste, come quelle del Ministro Gelmini.

In un periodo di recessione economica, di morte delle ideologie del passato, c’è ancora chi immagina una società progettata su basi solide, e queste basi non possono che essere incentrate sul percorso formativo dei cittadini, dall’asilo alle scuole elementari, dalle superiori alle università.

Il ruolo che la nostra Costituzione assegna all’università è quello di dare vita ad una coscienza critica collettiva che possa fungere da motore della mobilità sociale, che possa fornire risposte e risorse per il futuro produttivo del paese, che possa insegnare ad ogni cittadino a ragionare criticamente.
In nome di questi principi, l’università si configura come comunità del sapere critico, laico, accessibile, in sostanza libero.
A tal fine è necessario che il sistema formativo sia adeguatamente finanziato e sostenuto da una politica nazionale che miri a fare dell’alfabetizzazione di alto livello un punto fondamentale nello sviluppo della qualità della vita. Proprio questa mancanza di sensibilità e di attenzione dell’attuale Governo è da denunciare, perché dettata da priorità che non tengono conto del futuro, ma si fermano sic et simpliciter al tornaconto elettorale.

I nostri Atenei, che si vedono tagliati ulteriormente i propri Fondi di Finanziamento Ordinario, tanto da pregiudicarne la sopravvivenza, andranno incontro all’azzeramento della ricerca di base. A questo si aggiunga che, se lo sciagurato progetto della Gelmini di trasformare le Università in Fondazioni private andrà in porto, si otterrà l’eccessivo indirizzamento, propugnato dal mondo industriale, verso la ricerca applicata, oltre ad inevitabili influenze direttamente sul sistema didattico: questo significherà la morte del Sapere libero e critico.
Per questo siamo contro l’ipotesi di università che siano fondazioni in mano ai privati.
Non c’è università senza ricerca, non c’è ricerca senza università: l’Italia è uno dei paesi che investe meno in Europa, la quale, a sua volta, è superata da Giappone e dagli USA. Nonostante ciò, nelle università italiane è ancora molto alto il fervore nel creare sapere grazie alla dedizione di quei ricercatori che lavorano al suo interno (50% del totale) e che producono il 53% dei lavori scientifici italiani.
L’università senza ricerca rischia di divenire solo mera scolarizzazione, mentre la ricerca rischia di perdere la sua essenza principale, il Sapere. Non è più possibile abbandonare alla bancarotta una risorsa come quella sopra descritta: il Fondo di Finanziamento Ordinario è insufficiente alla sopravvivenza degli atenei; le nostre università sono, di fatto, ingessate e costrette a continuare il blocco delle assunzioni, per poi ricorrere, in molti casi, a finanziamenti esterni. Tali finanziamenti non sono reperibili dagli enti locali, che subiscono altrettanti tagli da parte del governo, e gli unici mezzi di reperimento attualmente usati da molti atenei risultano essere l’aumento del gettito proveniente dalla contribuzione studentesca, superando anche il limite del 20%, e il ricorso alle fondazioni, le quali risultano soggette ad una completa deregolamentazione.

L’università che vogliamo è necessariamente pubblica,
poiché parte di un sistema formativo di primaria importanza
per il futuro del nostro Paese.